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Interno di un vecchio palmento.

Particolare della zona di pressatura dell'uva.

I PALMENTI

Sin dal 1700 alcune lame e tenui pendii della collina nocese furono disboscati e adibiti a coltivazione di vigneti, che ben presto trovarono l’ habitat adatto per la loro vegetazione.
Attualmente, il bosco, che una volta dominava le colline circostanti il nucleo abitato, occupa sparute superfici e rimane a testimonianza di una realtà del passato.
Anche i vigneti sono scomparsi. Si notano, ancora, poche superfici occupate da vecchie piante di viti e resti di palmenti, disseminati qua e là, a dimostrazione di come l'uomo produceva il mosto in campagna, accanto al vigneto, per poi trasferirlo nelle cantine del paese per la fermentazione e l’invecchiamento.
Spesso, i nostri agricoltori, piantavano i vitigni lungo i muri a secco, attorno ai cumuli di pietre e davanti ai trulli, ove formavano dei pergolati, perché le viti potessero trovare sostegno e umidità sufficiente sotto le pietre, sì da poter sopravvivere alle arsure estive.
La vendemmia, in autunno, attesa da piccoli e grandi, attivava il centro abitato per via del continuo movimento di carri agricoli e di carretti, questi ultimi spinti anche a mano, carichi di tinelli contenenti uva schiacciata o di botticelle e barili pieni di mosto ottenuto nei palmenti di campagna.
Il palmento, luogo accanto al trullo dove si praticava la spremitura delle uve, era costituito da una cisterna e da una gran vasca di pietra squadrata. Le due strutture erano adiacenti. La cisterna o vasca vinaria, con una capacità che si aggirava sui trenta quintali di mosto, presentava una volta a botte che si concludeva di poco sopra il livello del piano del terreno. Le pareti interne erano intonacate con creta impastata a calce per renderle impermeabili, mentre l’imboccatura si apriva sul lato contiguo alla grande vasca, nella zona mediana.
La gran vasca, che iniziava ad una decina di centimetri sopra il livello del terreno, era profonda meno di un metro e presentava una base quadrata e leggermente in pendenza verso la cisterna che riceveva il mosto attraverso una canalina di pietra. Al centro della base della vasca, in una basola di pietra, messa di poco sopra al livello del piano normale, v'era un foro a forma cubica in cui s'innestava la colonna filettata del torchio di legno di quercia che iniziava a base quadrata. Questo torchio primordiale, non più in uso da tanti anni, è un pezzo raro e senz'altro da museo.
L’operazione di pigiatura dell'uva avveniva con i piedi, calpestando i grappoli che erano stati versati nella grande vasca.
Prodotto il mosto, che confluiva nella cisterna, si provvedeva al suo prelevamento e trasferimento nelle cantine dove doveva fermentare per trasformarsi in vino.
Il palmento, in tutti gli altri mesi dell'anno, era utilizzato come zona di raccolta e deposito d'acqua piovana.
Le cantine, ubicate nel centro abitato, erano tutte seminterrate, perché la temperatura, non elevata e stazionaria per tutto l'anno, permetteva una buona conservazione del vino.
La cantina del passato era intesa sia come deposito, che come zona di spaccio del vino per gli abitanti e pertanto come luogo di ritrovo.
L’undici novembre, giorno in cui ricorre la festa di S.MARTINO, si diceva che ogni mosto fosse ormai vino.
In quella data, a mezzo di piccoli rametti di roverella o di edera ( la frasca ) appesi alla porta della cartina, il cantiniere annunciava la vendita del vino novello.
I vari artigiani, i boscaioli, i carbonai, i produttori di calce viva, i lavoratori agricoli ed altri, divenivano gli avventori più abituali, specie nei giorni di festa o di cattivo tempo.
Gli uomini, seduti su panche di legno di quercia, nelle lunghe serate fredde, tenendo il bicchiere colmo di vino tra le mani callose, chiacchieravano e ogni tanto lo sorseggiavano.
Un buon bicchiere di vino novello rincuorava gli animi e faceva dimenticare, anche se per poco tempo, dispiaceri, sacrifici e miseria.