CIABATTINI E FABBRI

Non si possono cancellare dalla memoria i ricordi di un passato non recente, in cui si conduceva un'esistenza che, al contrario di quanto avviene oggi, lasciava gli animi tranquilli, seppur nel sacrificio costante della quotidianità.
Era una consuetudine per i braccianti che dovevano raggiungere i luoghi della campagna, la levata mattiniera, agli albori della nuova giornata, quando il cielo aveva un colore roseo, prima che comparisse il sole all’orizzonte.
Artieri, boscaioli e contadini, a passo celere, coperti da lunghe mantelle, con le bisacce a tracollo, lasciavano il paese e sparivano per le stradine e i sentieri che conducevano verso la campagna.
Tutt’attorno al centro abitato, oltre gli orti in cui gli ortolani coltivavano la verdura che vendevano alla comunità locale, i terreni coltivati a viti allevate ad alberello erano copiosi per ogni andare delle contrade nocesi. Dopo i rigori invernali, dal mese di febbraio in poi, eseguiti i lavori di potatura e raccolta dei sarmenti, per farne carbonella da bruciare nei bracieri, i proprietari dei vigneti ingaggiavano squadre di zappatori che dovevano tenere conto di rivolgere la terra, muniti d'ampie zappe. Uno di seguito all’altro, per file parallele, con impeto, ogni zappatore procedeva nell’opera e, giorno dopo giorno, il vigneto assumeva una nuova fisionomia e si preparava ad affrontare un’altra annata produttiva. Gli uomini, in coro, intonavano stornelli, fischiettavano e cercavano di non pensare al sacrificio che stavano affrontando.
Ogni zappatore, per evitare che la terra sporcasse i pantaloni penetrasse negli scarponi, usava indossare gambaletti di tela grezza, alti sino sotto il ginocchio.
Le scarpe grosse, come si usava dire, erano di cuoio robusto ed erano caratterizzate nella parte più esterna, e quindi soggetta all’usura, da chiodi a testa molto ampia e da lamine di ferro alle due estremità, affinché durassero a lungo.
A Noci, numerosi erano i ciabattini che si dedicavano non solo alla riparazione delle scarpe rotte, ma anche alla realizzazione di quelle nuove, commissionate su misura dagli acquirenti del luogo. Ognuno, nel suo settore, dava il meglio di sé, evitando di non fallire mai, perché un insuccesso voleva dire perdere la possibilità di lavorare e di portare un pezzo di pane alla propria famiglia.
In base alle commesse che mediamente riceveva, ogni maestro calzolaio, assumeva alcuni discepoli che specializzava nei vari ruoli necessari per rifinire le scarpe. Gli apprendisti, sin da giovanissima età, iniziavano a frequentare il laboratorio artigianale facendo i garzoni e dedicandosi a raddrizzare i chiodi usati, affinché potessero essere riutilizzati per risuolare le scarpe rotte.
Chiodi di varia forma e grandezza, in base all’uso che se ne doveva fare, ferri per scarpe grosse e per cavalli, utensili d’ogni genere, serrature, cardini e cerniere per porte, e tant’altro ancora, erano i prodotti quotidiani dei fabbri nocesi che lavoravano in piccoli locali dalle pareti rivestite di fuliggine derivante dalla combustione del carbone fossile nella fucina. Tutt’attorno al laboratorio risuonava il martellare cadenzato sull’incudine, ove il pezzo di ferro incandescente era lavorato per essere modellato nella forma desiderata.
Ovunque, per la cittadina, ferveva l’impegno e la comunità cresceva e procedeva nella piena autonomia, poiché non era facile procurarsi beni e risorse d‘altri luoghi. Erano uomini dai visi sempre sporchi di fuliggine o di altre sostanze che manipolavano, dai vestiti logori, dalle mani callose e, non vorrei dimenticare, dal cuore grande; sempre pronti ad offrirsi agli altri per muoversi tutti assieme verso un futuro che non sembrava facile. La vita trascorreva fra tanti affanni e ognuno, in cuor suo, sperava di poter vedere, ancora, un’altra alba: opera grandiosa di quella natura di cui faceva parte

Braccianti intenti a zappare un vigneto.

Anni venti del secolo scorso: ciabbattini all'opera.

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Ciabattini all'opera.

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Fabbro impegnato a modellare un attrezzo sull'incudine.