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IL PANE E LA PASTA FATTI IN CASA

Il sabato, prima dell’alba, la massaia setacciava la farina e la impastava nella madia con acqua tiepida, ottenendo il pane che doveva servire a sfamare l’intera famiglia per tutta la settimana.
Inoltre, il sabato, verso sera, il capo famiglia rientrava nella propria residenza, dopo sei giorni trascorsi nei boschi ad abbattere alberi e produrre carbone e calce viva, oppure nelle masserie coltivando campi o curando gli animali domestici.
Poi, il lunedì mattina, all’alba, il capo famiglia dopo aver riempito la sua bisaccia di pane, legumi e farina, ripartiva, a piedi, verso il luogo di lavoro.
Nei tempi passati non esistevano i panifici e perciò ogni massaia, si occupava di panificare in casa.
Il pane, tenuto a lievitare sotto le coltri del letto, veniva portato ai forni pubblici per la cottura.
Per la lievitazione della farina si utilizzava il lievito casalingo o naturale, così detto perché ottenuto dall’impasto di poca farina con acqua tiepida (25-30°C), poi si lasciava riposare per 24 ore; quindi si rimuoveva l’impasto aggiungendo altra acqua tiepida e farina, rimettendo la pasta ottenuto a riposo per qualche giorno ancora. In tal modo, il lievito poteva essere usato per la panificazione.
Una parte dell’impasto di farina, lievito, acqua e sale, era conservata in una scodella di terracotta e, affinché non subisse screpolature ed essiccamento, veniva ricoperta di uno strato sottile d'olio.
Il lievito così prodotto era utilizzato nella successiva panificazione che doveva avvenire entro i sette giorni dalla produzione.
Dal ricettario delle nostre massaie si evince che per la panificazione di un quintale di farina occorrevano due chilogrammi di lievito naturale, un chilogrammo e mezzo di sale e dai quaranta ai cinquanta litri d'acqua.
Da cento chilogrammi di farina si ottenevano forme di pane cotto, da chilo o poco più, per un peso totale di 115-130 chilogrammi, in rapporto al livello d'umidità contenuta. Il lievito è una massa contenente microrganismi che producono la fermentazione alcolica di liquidi zuccherini.
La fermentazione è il fenomeno chimico e fisico più importante nella panificazione, perché provvede alla scomposizione chimica dell’amido contenuto nella farina in anidride carbonica e alcool, sostanze che rendono spugnoso il pane e, altri composti organici che danno a quest'alimento l’aroma che lo caratterizza.
Tutto questo è opera dei Saccaromiceti, fermenti vivi presenti nei lieviti che producono enzimi, i quali, agendo sull’amido della farina lo scindono prima in glucosio e fruttosio, zuccheri più semplici e, successivamente, in anidride carbonica e alcool. Senza l’uso del lievito si ottiene un prodotto non fermentato, poco digeribile, detto pane azzimo.
Nella panificazione moderna il lievito casalingo ha è stato sostituito dal lievito sia di birra sia chimico o artificiale. Questi, pur abbreviando i tempi di lievitazione dell’impasto, rendono meno gustoso il prodotto finale.
Il lievito di birra, la cui produzione risale agli inizi del ventesimo secolo, è stato così denominato, perché ricavato dai residui e scarti della fermentazione della birra. Ai residui, che risultano ricchi di Saccaromiceti, si aggiunge la fecola che si ricava dai tuberi delle patate e serve per la sopravvivenza degli stessi microrganismi.
Detto lievito, conservato in frigo, è da utilizzare entro una ventina di giorni dalla produzione.
Il lievito chimico, composto di bicarbonato di sodio e acido tartarico, ad azione più rapida, viene usato nella produzione di dolci.
Verso sera, quando le tenebre scendevano sul tetto di pietra calcarea della casetta imbiancata con il latte di calce, nelle lunghe serate invernali, mentre la pioggia cadeva lentamente e senza tregua, accanto al caminetto dove bruciavano i rami secchi, la massaia impastava sul tavoliere la farina di semola, per poi ottenere la pasta casalinga: cavatelli, orecchiette e tagliatelle.
Nelle famiglie che vivevano in povertà, la pasta al sugo, tanto apprezzata da piccoli e grandi, era un alimento di pregio, una leccornia da consumare nei giorni di festa.
Nei nostri giorni, nelle famiglie nocesi, sono le nonne, molto legate al passato, che si dilettano a impastare la farina integrale (u gruès), ricavata dalla molitura di grano duro, per ottenere i cavatelli da cuocere con le rape.
In passato, i festeggiamenti dei matrimoni si celebravano nei locali privati, nelle case o nelle rimesse che, per l’occasione, venivano liberate dai calessi o da quanto altro vi era depositato.
Inizialmente, le famiglie più povere, festeggiavano il matrimonio con pasti a base di pagnotte ripiene di formaggio e salumi, dolci secchi, spumoni ed altro. Successivamente, con l’avvento della pastificazione industriale, presso i molini a vapore, si produssero diversi tipi di pasta secca. In particolare, gli ziti, nome dialettale con cui si chiamavano i novelli sposi, avevano la lunghezza di una settantina di centimetri e spezzati a mano, divennero il tipo di pasta che si serviva negli sponsali.
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Orecchiette: tipica pasta fresca della Puglia.

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Madia per impastare la farina e fare il pane.