Bosco ceduo ESCAPE='HTML'

L'asparago selvatico

Scapo di asparago ESCAPE='HTML'
Prato  in primavera ESCAPE='HTML'

Fascio di asparagi selvatici.

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L’asparago
L’asparago (Asparagus Acutifolius, famiglia delle Liliacee) è una pianta rizomatosa che produce, fra i cespi spinosi, turioni carnosi, succulenti, di gradito sapore e abbastanza diuretici. E’ un vegetale spontaneo e tanto comune sul territorio che abitiamo: osservabile lungo i muri a secco, fra i rovi e le pietraie delle stradine campagnole, sui terreni incolti della murgia barese o fra gli alberi di quercia dei boschi cedui.
In alcune zone, dove il terreno è profondo e ricco di sostanze organiche, in fase di decomposizione, si pratica, in modo razionale, la coltivazione di tale pianta che può rimanere produttiva per più di venti anni.
Noi, ancora piccoli giovincelli, amatori della natura in cui vivevamo la propria infanzia, nel mese di marzo, quando non ci recavamo a scuola, andavamo per sentieri e pendii del territorio alla ricerca d'asparagi. Nell’affannosa ricerca fra i rovi e le pietre, spesso, c’imbattevamo in un serpente intento a gustare i primi raggi di sole. Dopo un attimo d'esitazione, d’incertezza reciproca, ognuno, temendo l’altro, se la dava a gambe. Il serpente spariva fra le pietre del muro a secco e noi, indietreggiando, a gambe levate, ci allontanavamo da quel luogo, senza mollare il fascio d’asparagi che avevamo raccolto.
Con l’avvento della primavera, i nostri animi si rincuoravano, ci coglieva una gioia immensa che metteva voglia di vivere, perché il sole, con i suoi tiepidi raggi, stava facendo rinascere la natura, dopo la fredda pausa invernale.
Tutti abbandonavano i pesanti indumenti di lana per vestire quelli di cotone e, nelle belle giornate assolate, con il nostro maestro, intraprendevamo le prime passeggiate campagnole, per distenderci, poi, sull’erba che sapeva d'umido perché aveva perduto, in buona parte, la rugiada che l’aveva vestita lungo la notte.
Le bambine raccoglievano, sui cigli della strada in terra battuta, mammole di colore viola e margheritine, per farne poi, ghirlande da fissare, con ferretti metallici, fra i capelli.
Era così che imparavamo a conoscere i segreti della natura, la sua vitalità, la bellezza e complessità armonica di un fiore: uno dei tanti elementi dell’ecosistema che regolano l’ambiente.
A quei tempi la strada era, per noi ragazzi, un luogo comune abbastanza sicuro ove iniziavamo a scoprire l’essenziale per entrare a far parte attiva della comunità umana. In aprile, fra l’altro, fiorivano i gladioli selvatici e noi, golosi delle dolci infiorescenze, marinavamo la scuola per recarci in campagna a correre fra i prati verdeggianti, alla ricerca di tali fiori che chiamavamo”pizcuerne”, per via della loro forma allungata, tipo corno. Il giorno seguente, il maestro, nel chiederci giustifica per l’assenza da scuola, così ci appellava: “Nané cà site sciute a pizcuerne?”.
La natura, femmina come la donna, osservandola con attenzione, c’innamorava, trasmettendoci tanta voglia di vivere.